sabato 21 giugno 2014

Recensione di "Andrò via senza dire niente' di Teresa Verde, edizioni La Gru

Andrò via senza dire niente di Teresa Verde è opera sfuggente da bere d’urgenza e tutta d’un fiato, come acqua di fontana raccolta nelle mani a coppa. Lo è già nella struttura che non sappiamo se definire raccolta di racconti a tema o romanzo breve a più voci.  Eppure, l’autrice sembra volerci rassicurare fin dall’inizio “E sia ben chiaro che non ho scritto nulla di nuovo”, per concludere che “A dire il vero non c’è nessuna differenza tra gli uomini, anche se in molti credono che ve ne sia”.


Ma si sa quanto agli autori, soprattutto a quelli bravi, piaccia depistare il lettore, trasportandolo in territori che a tutta a prima gli paiono familiari per poi divertirsi a lasciarlo solo in campo aperto, nudo e senza riferimenti noti. Non faceva così Kafka, facendo apparire plausibile e persino dovuta la metamorfosi di un commesso viaggiatore in scarafaggio? Non faceva così  Bukowski, autore certamente caro all’autrice che lo cita in apertura, trasformando il banale quotidiano in materia corrosiva?
Eppure Teresa Verde ha ragione: non scrive nulla di nuovo e racconta di uomini che sono quelli che incontriamo tutti i giorni salendo sull’autobus “tra odori di brodini da ospedale e candeggina” oppure di donne che ci siedono a fianco al lavoro con “varie tonalità di giallo malcontento” e “di gente che doveva andar di lena a guadagnarsi il pane in fabbriche fatiscenti” o ancora di case di periferia che “sputavano un sacco di bambini di strada”.
Sono questi, banali, quotidiani, gli scenari delle storie che si intrecciano in Andrò via senza dire niente. Che pero’ paiono palchi di teatro, fondali finti che di notte vengono smontati per essere trasformati in carne e sangue. Perché “quando vivi di giorno, non lo sai, non sai niente”. E di notte Teresa Verde ci prende e ci  porta dietro il sipario apparente delle cose e lo fa con la frusta del linguaggio pungente che la caratterizza, ed è tutta lì la novità e la differenza dell’opera. L’autrice ci stordisce pagina dopo pagina con la sua lingua tutta sensoriale, lavorando con suoni, colori, odori, sapori e persino consistenze come se questi fossero la sua grammatica del quotidiano, che lei fonde in inedite sinestesie “la caramellosa avversione per gli autobus, l’asciugamano color worchester che odorava di menta e ginseng” e poetici ossimori “la sabbia luminosa, il fumo di ghiaccio, il cieco che vede i colori”.
E d’altronde non si presenta così già dal nome, Teresa Verde, col quel patronimico che sa di fresca primavera e invece di estate e terre arse il nome proprio?
Ma se i colori e gli odori sono il suo personale e immaginifico alfabeto,  con questo lei compone parole d’amore e di morte. Di queste due parole umide e vecchie è composto l’estratto secco dell’opera e la sua ragione di esistere, la sua urgenza narrativa.
E di suicidi, quindi, o di morti premature, d’incontri d’amore, di stupri e d’abbandoni, dell’impossibilità di continuare a vivere e della necessità di farlo, comunque.
 Nulla di nuovo, certo. Storie di uomini e donne come tanti, senza nessuna differenza,  come quelli portati sulla scena dal teatro greco e da Shakespeare.

Temi universali, eterni che Teresa Verde, a modo suo, ci inietta sotto pelle come antidoto alla banalità del quotidiano.