martedì 25 novembre 2014

Se questa è una donna!



http://www.edizionilagru.com/tomba-321



Con questo sorprendente esordio letterario, Silvia Palano ci offre un romanzo che è un thriller sulla moralità della storia. Con uno stile pacato e asciutto spalanca la porta dell'inferno e il lettore non puo' fare altro che perdersi nelle 274 pagine del libro per poi finire esausto il percorso davanti alla Tomba 321, ma andiamo per gradi...


Buenos Aires, gennaio 1979, un uomo di circa settant’anni entra in una chiesa e affida a un giovanissimo prete di origini tedesche un diario che racconta la propria gioventù di ufficiale delle SS. Il diario inizia nel 1938 a Kassel con la notte dei cristalli, dove Josef incendia la sinagoga e distrugge i negozi degli ebrei, continua con il periodo di addestramento a Berlino,  la successiva assegnazione al lager di Mauthausen, poi in missione al famigerato Castello degli orrori di Hartheim e in via definitiva ad Auschwitz fino a qualche giorno prima della liberazione del campo, in pratica copre tutto la fase più aggressiva dell'antisemitismo. Alle pagine del diario si alternano i fitti dialoghi tra il vecchio nazista che vuole essere confessato, senza peraltro mostrare mai i segni di sincero pentimento, e il giovane prete che non vuole perdonarlo…

Ovvero prendi  Se questo è un uomo di Primo Levi e rovescialo, otterrai Tomba 321: la parola ai carnefici. Tanto Primo Levi è impietoso nel raccontare l’Auschwitz infernale dei deportati con la loro vita subumana dove ci si uccide per una gamella di brodaglia in più e i nazisti fanno da sfondo al racconto, divinità del male intoccabili, quanto in Tomba 321 il lager è raccontato dall’aguzzino e i prigionieri non ci sono come persone, se non come massa indistinta, sporca e puzzolente che genera fastidio, a tratti imbarazzo fisico all’ufficiale, mai pietà.
Il romanzo è ben giocato su due livelli narrativi: il diario e il dialogo serrato tra il prete e il vecchio nazista che assurgono a rappresentazioni simboliche del bene e del male. Ciò che colpisce è come l’autrice sia riuscita a immedesimarsi in ruoli maschili; soprattutto il diario di Josef sembra proprio scritto da un giovane ufficiale infervorato dalla propaganda hitleriana. E’ un linguaggio virile – maschio si sarebbe detto allora – che non lascia spazio a sentimenti che non siano quelli strettamente legati alla sua famiglia.
La storia cattura il lettore in una spirale che lo costringe a continuare, anche grazie a una serie di colpi di scena che non possiamo svelare per non togliere gusto alla lettura, e l’autrice riesce a mantenere una sorta di equidistanza tra i due, a non mostrare una preferenza tra il bene e il male ed è forse questo il suo trucco sapiente.

Gli interessi e i pensieri di Josef sono tutti rivolti in due direzioni: la carriera e la famiglia. E’ una perfetta rappresentazione della banalità del male. Dispensa la morte come un freddo burocrate e intanto riflette su cosa gli convenga fare per farsi benvolere dai superiori (possibile che quell’imbecille abbia fatto carriera e io no?). Chiede di essere trasferito ad Auschwitz perché si qui si vive, si lavora sodo e si puo’ fare carriera, frigge ragazzini contro il filo di recinzione elettrificato e intanto pensa al figlio malato. Si annoia per la vita del campo (una noia mortale), ma non prova nessun senso di colpa per il suo spregevole compito. Nessuna vergogna, nessuna pietà, al limite solo ribrezzo e imbarazzo per gli aspetti esteriori della convivenza con quei mezziuomini maleodoranti: ci ha perciò ordinato di far riesumare i cadaveri e di bruciarli. Che schifo! E qualche tenerezza scambiata con un’internata adolescente costretta a lavorale al bordello del campo (Al bordello ci si dimentica di trovarsi in un campo di concentramento). Nemmeno l’eccitazione del sadico (non avevo voglia di ammazzare nessuno). Soltanto le disgrazie della sua famiglia lo turbano (il fratello Rolf arrestato perché dissidente, la moglie Anja suicida, il figlio malato), tutto il resto lo lascia indifferente. Annoiato.


Tomba 321 è il convincente romanzo di una giovane esordiente che colpisce nel segno come un pugno sferrato nelle nostre parti molli, una storia che non puo' lasciare indifferenti e che farà discutere. 

Se questa è una donna!




lunedì 3 novembre 2014

Presentazione il mio l'ho fatto a Sesto San Giovanni - Libreria Presenza, 8 Novembre 2014




Presentazione Il mio l'ho fatto presso l'Istituto Storico della Resistenza di Varallo - 29 Settembre 2014

All’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, è stato presentato l’ultimo romanzo dello scrittore di origini valsesiane Fabio Musati: “Il mio l’ho fatto. L’avventura del partigiano Veritò”.
Lunedì 29 settembre non è stata una data scelta a caso: il 29 settembre 1944 Clemente Musati era stato arrestato, imprigionato nelle scuole di Varallo, poi portato a Milano, quindi trasferito a Bolzano, da dove era partito per il lager di Mauthausen, dove morì. L’autore, nel giorno del suo compleanno, ha voluto regalarsi la prima presentazione proprio all’Istituto, con alle spalle il logo creato nel 1973 da suo padre Arnaldo in occasione del conferimento alla Valsesia della medaglia d’oro per la Resistenza.
Non solo un giorno della settimana piuttosto insolito, ma anche la proposta di una modalità inusuale: un dialogo tra l’autore e il direttore dell’Istituto, Enrico Pagano, contrappuntato dalle letture dell’attore Daniele Conserva, formula molto apprezzata dal pubblico presente.
“Finalmente, grazie ad un romanzo sulla Resistenza esaminata da un punto di vista complessivo e con ambientazioni verosimili e realistiche, è stato restituito a protagonisti come Clemente e Attilio Musati quello spessore umano che gli storici non avevano potuto far emergere, un’opera che avrà certamente un buon futuro e che presto verrà presentata nelle scuole valsesiane. La letteratura batte la storia: due a zero”: Enrico Pagano, che ha firmato la prefazione, ha ricordato come il libro sia nato proprio da una serie di conversazioni ed esperienze comuni che hanno indotto Fabio Musati a ricercare prima all’interno della sua famiglia, poi allargando progressivamente l’orizzonte. Per Fabio è stato un interesse germogliato in anni lontani, in età adolescenziale, quando Cino Moscatelli portò al padre una copia de Il Monterosa è sceso a Milano e la dedicò proprio a lui, avendo compreso che la memoria va trasmessa alle generazioni più giovani, a chi non ha vissuto quegli anni, ma proprio per questo devono “entrargli dentro, trovare una collocazione senza perdersi nell’indistinto fluire del tempo e della storia”.
Dall’incipit del romanzo, che cala il lettore nella settimana santa del 1944, nel cuore della Resistenza, alle pagine finali in cui Veritò, sopravvissuto al campo di concentramento e tornato a lavorare alla Falk, disperde nel forno le ceneri del padre, dicendo “Il mio l’ho fatto, ho pensato, e ho ripreso la mia vita”, è sottesa una domanda rivolta ai lettori che induce a riflettere sulle scelte del presente.
Il romanzo si inserisce nel filone resistenziale alto, tracciato da Fenoglio, Calvino, Pavese, parla in modo estremamente diretto, che arriva al cuore del lettore, con una forza diversa dal saggio storico: Veritò, alter ego dell’autore, è la “terza persona” che serviva per raccontare due figure di valsesiani che ebbero ruoli importanti nella Resistenza e che pagarono con la vita la loro scelta dopo l’8 settembre. Clemente e Attilio Musati erano lo zio e un cugino di Fabio: “Mio padre aveva conservato tutto del fratello che era l’eroe di famiglia, dalle pagelle alle medaglie, alle croci di guerra, alle numerose fotografie che ho sempre visto in casa, di Attilio sapevo molto meno, ma come scrittore potevo prendermi delle belle libertà”. Essendo un romanzo non c’è la bibliografia, ma dietro ad ogni pagina si sente l’eco di molte letture, di fonti accuratamente ricercate ed esaminate: “Le dieci paginette sul lager di Mauthausen mi sono costate otto mesi di lavoro, lì mi sono bloccato perché dovevo calarmi nell’indicibile”.
L’autore non ha eluso nessuno dei temi più delicati e che maggiormente dividono il mondo della Resistenza: quello della guerra civile, inventando un incontro con un conoscente che aveva fatto la scelta opposta, motivandola per cercare di capire anche le ragioni degli altri e quello del “furto di futuro”: “Se non hai futuro puoi pensare solo alla distruzione”, ragionamento quanto mai attuale, che può essere la chiave per interpretare certi comportamenti apparentemente inspiegabili dei giovani di oggi, ma anche per comprendere il difficile reintegro dei reduci nella società. Chi tornava dai Lager nel clima euforico seguito alla fine della guerra, era una stonatura: “Eravamo una nota bassa in un concerto di flauti e violini”.

Piera Mazzone
Nella foto, da sinistra: Conserva, Musati, Pagano

Piera Mazzone


Presentazione Il mio l'ho fatto alla Libreria Odradek di Milano, 17 Ottobre 2014



sabato 5 luglio 2014

Il mio l'ho fatto. Il mio nuovo romanzo in uscita in Settembre



Andate in ferie e dopo ne parleremo insieme in Valsesia, a Milano e ovunque vogliate. 
Chi lo desidera puo' prenotare il libro da ora.

sabato 21 giugno 2014

Recensione di "Andrò via senza dire niente' di Teresa Verde, edizioni La Gru

Andrò via senza dire niente di Teresa Verde è opera sfuggente da bere d’urgenza e tutta d’un fiato, come acqua di fontana raccolta nelle mani a coppa. Lo è già nella struttura che non sappiamo se definire raccolta di racconti a tema o romanzo breve a più voci.  Eppure, l’autrice sembra volerci rassicurare fin dall’inizio “E sia ben chiaro che non ho scritto nulla di nuovo”, per concludere che “A dire il vero non c’è nessuna differenza tra gli uomini, anche se in molti credono che ve ne sia”.


Ma si sa quanto agli autori, soprattutto a quelli bravi, piaccia depistare il lettore, trasportandolo in territori che a tutta a prima gli paiono familiari per poi divertirsi a lasciarlo solo in campo aperto, nudo e senza riferimenti noti. Non faceva così Kafka, facendo apparire plausibile e persino dovuta la metamorfosi di un commesso viaggiatore in scarafaggio? Non faceva così  Bukowski, autore certamente caro all’autrice che lo cita in apertura, trasformando il banale quotidiano in materia corrosiva?
Eppure Teresa Verde ha ragione: non scrive nulla di nuovo e racconta di uomini che sono quelli che incontriamo tutti i giorni salendo sull’autobus “tra odori di brodini da ospedale e candeggina” oppure di donne che ci siedono a fianco al lavoro con “varie tonalità di giallo malcontento” e “di gente che doveva andar di lena a guadagnarsi il pane in fabbriche fatiscenti” o ancora di case di periferia che “sputavano un sacco di bambini di strada”.
Sono questi, banali, quotidiani, gli scenari delle storie che si intrecciano in Andrò via senza dire niente. Che pero’ paiono palchi di teatro, fondali finti che di notte vengono smontati per essere trasformati in carne e sangue. Perché “quando vivi di giorno, non lo sai, non sai niente”. E di notte Teresa Verde ci prende e ci  porta dietro il sipario apparente delle cose e lo fa con la frusta del linguaggio pungente che la caratterizza, ed è tutta lì la novità e la differenza dell’opera. L’autrice ci stordisce pagina dopo pagina con la sua lingua tutta sensoriale, lavorando con suoni, colori, odori, sapori e persino consistenze come se questi fossero la sua grammatica del quotidiano, che lei fonde in inedite sinestesie “la caramellosa avversione per gli autobus, l’asciugamano color worchester che odorava di menta e ginseng” e poetici ossimori “la sabbia luminosa, il fumo di ghiaccio, il cieco che vede i colori”.
E d’altronde non si presenta così già dal nome, Teresa Verde, col quel patronimico che sa di fresca primavera e invece di estate e terre arse il nome proprio?
Ma se i colori e gli odori sono il suo personale e immaginifico alfabeto,  con questo lei compone parole d’amore e di morte. Di queste due parole umide e vecchie è composto l’estratto secco dell’opera e la sua ragione di esistere, la sua urgenza narrativa.
E di suicidi, quindi, o di morti premature, d’incontri d’amore, di stupri e d’abbandoni, dell’impossibilità di continuare a vivere e della necessità di farlo, comunque.
 Nulla di nuovo, certo. Storie di uomini e donne come tanti, senza nessuna differenza,  come quelli portati sulla scena dal teatro greco e da Shakespeare.

Temi universali, eterni che Teresa Verde, a modo suo, ci inietta sotto pelle come antidoto alla banalità del quotidiano.

mercoledì 16 aprile 2014

MAI PIU A VARALLO GLI ESSERI UMANI TRATTATI COME AUTOMOBILI

MAI PIU A VARALLO GLI ESSERI UMANI TRATTATI COME AUTOMOBILI

Si è concluso ieri al Tribunale di Torino, la causa che l’Asgi e quattro cittadini, hanno aperto contro il Comune di Varallo.
La causa era stata promossa per la rimozione dei cartelli che per 5 anni sono stati affissi all’ingresso in città e che sono stati rimossi e sostituiti con altri soltanto la mattina stessa in cui si teneva la prima udienza.
Nonostante la sostituzione abbiamo chiesto che il Giudice valutasse comunque se per 5 anni alla nostra città era stata inflitta l’offesa di dover sopportare, in  nome dell’amministrazione comunale, cartelli razzisti.
Su questo punto il Giudice ha accolto in pieno la richiesta così decidendo:
“I cartelli originari …erano certamente (e fortemente) discriminatori perché il divieto che dal cartello promanava veniva radicato tramite la focalizzazione del messaggio (tra l’altro , dai forti contenuti anche nelle immagine figurative) soprattutto sulle minoranze femminili ed islamiche; divieto reso ancor più tagliente dall’utilizzo improprio del simbolo del divieto di sosta (riferito a tutte le condotte vietate) che l’art. 158 del codice della strada prevede per i veicoli e non per gli esseri umani”.
Dunque – come ora accertato dal Giudice - per 5 anni una amministrazione comunale ha preteso di trattare esseri umani come automobili e se ne è fatta vanto, ferendo il senso di umanità della nostra comunità.
Siamo soddisfatti che ciò che per molti anni abbiamo sostenuto sia ora sancito da una decisione dell’autorità giudiziaria.
Purtroppo il Giudice ha ritenuto di non poter intervenire sui nuovi cartelli, anche perché l’affissione, essendo intervenuta nel corso del giudizio, non poteva essere considerata nel ricorso che aveva avviato il processo. Ma l’accertamento contenuto nella decisione rende comunque giustizia all’impegno profuso da molti cittadini per ripristinare nella nostra città condizioni minime di umanità e solidarietà.


Marianna Corte
Edoardo Ghelma
Fabio Musati
Maria Rosa Pantè
per l Comitato contro i cartelli razzisti

Varallo 15 aprile 2014




venerdì 11 aprile 2014

5,4,3,2,1, 0 donne?



Grillo tuona contro il PD di Renzi che fa marketing mettendo  capoliste 4 donne attraenti. In realtà le capoliste sono cinque ma siccome una ha 60 anni é stata risparmiata dall'ex comico (nel senso che non fa proprio più ridere). Non voglio tanto entrare nel merito della stile di comunicazione del signor Grillo che fa i comizi a pagamento e che insulta chiunque non la pensi esattamente come lui, inclusi i suoi. Non entro neanche nel merito delle scelte operate dal PD. Non mi compete, sono le scelte del PD. Punto.Gli elettori decideranno se votarlo o meno, stante questi capolista.
Mi piace pero' fare un'analisi puramente numerica, facendo qualche semplicissima ipotesi:

- Se il PD  avesse messo 0 donne capolista, Grillo (o chi per lui) avrebbe tuonato: sono un partito maschilista! Alla prima occasione smentiscono quanto detto in termi di pari opportunità tra generi.
- Se il PD avesse messo 1 donna capolista, Grillo (o chi per lui) avrebbe tuonato: ecco, hanno infilato li' una donna come uno specchietto per allodole. Avrebbero fatto meglio a non metterne affatto allora!
- Se il PD avesse messo 2 donne capolista, Grillo (o chi per lui) avrebbe tuonato: ecco, siamo alle quote rosa, roba da riserva indiana. E' al merito che bisogna guardare, non al genere!
- Se il PD avesse messo 3 donne capolista, Grillo (o chi per lui) avrebbe tuonato: e perché non 4 allora! Che cos'é questa mancanza di coraggio che porta il PD a fare le cose sempre a metà!
- Se il PD avesse messo 4 donne capolista, Grillo avrebbe tuonato quello che abbiamo sentito, visto che lui ne ha contate quattro, dato che il suo contabile era a fare un tagliando al cervello e da solo non ce la fa a contare fino a 5!




mercoledì 2 aprile 2014

Recensione del romanzo breve Twins di Teresa Verde



Prima arriva il linguaggio: periodi cortissimi, quasi una lista di pensieri veloci, niente articoli, verbi con una coniugazione ridottissima. 
Grave ritardo mentale dice dottore vestito da venditore di macchine usate.
E’ il flusso di pensiero della protagonista, Mari, che gira un intero giorno per un grande centro commerciale. A lei piace fotografare femmine con polaroid… Mie polaroid é faccia di femmine  di mondo di cui non faccio parte, come faccia da modella di Lena, la sorella cosi’ diversa da lei che deve incontrare quel giorno.
Spesso descrive per elenchi di attributi : Suo padre é enorme grasso maiale schifoso, puzzava di terra, sperma, metallo fuso, polvere di sparo, cocaina e alcol… Madre magra scimmia con annebbiati occhi come serrature strette e labbra grandi come gommoni.
Con quel linguaggio da ritardata mentale (ma io no ritardata, io solo rifiutato di parlare bene) descrive e seziona il mondo che incontra con flash di sorprendente poesia mischiata a genuina crudezza : Bambina cinese ha occhi chiusi come parentesi ingiù. Sorride mentre guardo lei, succhia lecca lecca gigante. Di futuro lei succhia cosi’ cazzi.

Poi arriva il personaggio : Mari e Lena sono gemelle, due metà di uno stesso nome, ma non potrebbero essere più diverse. Mari, capelli grigi, bocca sottile, alta, gigante di molto peso, cicciona, lardosa, maiala, vacca, forme di corpo confuse con ciccia. Io cesso di merda. Lena é madonna strafiga, lei fata. A Lena dicevano che era bella, brava, aveva sempre tanti uomini. Era la prediletta della madre, che si vestiva come lei. A Mari tiravano gavettoni con pipi’, escrementi gatto. Tutti prende in giro me perché scema e brutta. 

I luoghi, percepiti sempre come estranei, eppure cosi’ precisamente descritti: Ingresso di centro commerciale sembra cattedrale neogotica di san Patrizio. La gente sta entrando con disegno di miraggio di compere su faccia.  
Mari vive in un istituto-prigione per ritardati mentali e le hanno trovato un lavoro da commessa in un supermercato. Mio lavoro brutto e squallido, ma io faccio. Per cash. Quello lo capisce bene, il cash é l’unico valore per tutti: gente no controlla più cose che fa, che dice, che mangia, che crede.
In letto-prigione ho esatta percezione di strada con fermata di tram…Posso sentire distinti rumori, voci, passi e mi vengono pensieri di uccidere.

Infine la storia: Mari, sacco di patate, adesso é felice perché é diventata un killer seriale di donne che assomigliano tutte alla sorella prediletta, quella che lei non vede da anni se non su giornaletto di moda, pornografia di perbene. Adesso ha un’identità, é temuta, e gode nel torturare e ammazzare nei modi più fantasiosi le sue vittime, come faceva da bambina con gatti, cani e conigli. Passa la giornata fotografando commesse e acquirenti del centro commerciale, in attesa di incontrarsi con Lena. Fottutamente felice oggi perché ammazzo donna puttana. Ma no puttana qualunque, lei é mia gemella Lena!

Teresa Verde con Twins ci dà una lezione di patetica crudezza nel raccontare una storia drammatica. Entra nella testa di un folle criminale e ci legge dentro, trovandoci grande umanità, riscatto, sofferenza ed estetica del terrore. Lo fa con sapienza e stile, lo fa senza pietà. Picchiata con mazza, finché tagliato con rasoio suo corpo gonfio di botte e lasciato sanguinare. Non c’é salvezza per nessuno se non la morte, della quale Mari é severa dispensatrice. Non c’é per Lena, non c’é per Mari, anche nel loro ultimo gioco di specchi.
Una prova convincente. Romanzo breve per palati forti, ma non di genere,  a meno che vogliamo considerare la buona letteratura un genere.


http://www.edizionismasher.it/teresaverde.html


lunedì 16 dicembre 2013

Huayna Picchu

Da quassu’ lo spettacolo mozzerebbe il fiato, se dopo la faticaccia ne avessi ancora.  Sotto qualche straccio filamentoso di nuvola, si vedono le terrazze in pietra dell’antica città Inca, il sentiero che zigzaga nel verde della vallata, l’orrido che si strozza tra i crostoni di roccia e termina nel letto del fiume.

Qualche metro sopra di noi un vecchio peruviano é seduto su di un sassone. La pelle della faccia come cuoio bruciato, le dita della mano destra che rattrappite grattano un chitarrino. Dei ragazzi americani lo osservano e ridono, mentre mangiano dei panini. Io non ho fame, sono troppo stanco per la salita e ho ancora in bocca il sapore aspro delle foglie di coca che mi hanno aiutato a venir su. A dire il vero, senza Guido non ce l’avrei fatta. Senza il suo incitamento ‘dai papà che sei ancora in gamba !’, senza il richiamo alla vita che mi dava standomi davanti col suo passo da giovane stambecco, lui.  Io con la bocca spalancata a cercare aria e le mani che afferravano ogni presa possibile per salire,  ma insieme siamo arrivati fino alla cima del Huayna Picchu. Gli ultimi metri (quanti? dieci? cento?) aggrappati alla roccia, qualche appiglio naturale, senza protezione, schiacciati contro la montagna, strisciandoci sopra e sentendone il graffio ruvido sulla pelle.
Adesso le nuvole si sono alzate. Quassu’ sembra di essere sospesi sul nulla. Odore di umido, freddo e Guido ha fame. Anch’io sento qualcosa che mi si muove in pancia, ma non é fame. Dobbiamo scendere. Già, bisogna scendere adesso. Deglutisco e sento una punta di amaro in fondo alla gola. Paura? E’ Guido che me lo chiede, e per spronarmi fa un paio di passi verso l’orrido. Poi si blocca. D’improvviso, come se avesse cambiato idea.  Gli prendo la mano. Trema. E' mezzo congelato, dice, con il labbro inferiore che sembra paralizzato. Lo guardo dritto negli occhi e cerco di comunicargli la sicurezza che non ho. Fa freddo, ma sento le goccioline di sudore che mi scendono dalla fronte. Questo momento sa di sale e di freddo.
Non c’é problema, gli dico. Devi tenere il peso sempre verso la montagna e scendere all’indietro piano piano,  tenendoti a tutti gli appigli che trovi. Forza ! Io davanti e lui dietro, questa volta. La mia mano che si tende verso la sua nei passaggi più difficili. La faccia schiacciata contro la montagna. Ti entra nelle narici : odore di pietra, muschio e paura. Ogni passo il rischio reale di cedere alla gravità che ci vorrebbe attirare nell’orrido. Sotto c’é il Machu Picchu, ma non lo guardiamo, tutta la nostra attenzione é al metro successivo, non c’é altro. Ogni passo il laccio delle nostre mani che ci sostiene, gli sguardi che si cercano negli attimi di sosta. Sento che si affida totalmente a me. Questo mi dà forza.
Più sotto, ritroviamo gli scalini di pietra. Da qui in poi, é roba per umani, non per camosci. Ci sediamo qualche istante a riprendere fiato. La bocca secca, le mani graffiate, gli sguardi gioiosi. Ce l’abbiamo fatta, papà ! Si’, ce l’abbiamo fatta, Guido. Ci scaldiamo in un abbraccio.

Siamo vivi, noi due, insieme più di prima.

martedì 1 ottobre 2013

Arnaldo Musati: la pubblicità va in montagna

Torna "Ottobre Arte Aosta", ciclo di incontri-dibattito giunto alla diciassettesima edizione, in programma nella Biblioteca regionale di Aosta, e organizzato dall’Assessorato dell’istruzione e cultura, in collaborazione con l’Associazione Artisti Valdostani.
Gli appuntamenti quest'anno sono tre e prenderanno il via mercoledì 2 ottobre, con "Arnaldo Musati: la pubblicità va in montagna", con Leonardo Acerbi, giornalista, laureato in Storia dell’Arte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Acerbi ha incentrato il suo corso di studi sulla cultura artistica figurativa in Fiandra e nei Paesi Bassi dal XV al XVI secolo. Dal 1999 tiene corsi di Storia dell’Arte presso l’Università della Terza Età di Aosta.

lunedì 30 settembre 2013

Pensavate che avessimo lasciato perdere? Vi siete sbagliati di grosso

Eccovi una notizia: il 12 dicembre andiamo a Torino. Perché? Perché quattro cittadini Fabio MusatiEdoardo Ghelma Maria Rosa e Marianna Suprema Corte, assistiti dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e sostenuti dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), hanno presentato ricorso civile ricorso avanti il Tribunale di Torino contro il Comune di Varallo, rappresentato dal sindaco on. Gianluca Buonanno, quello che non mangia i finocchi e che non facendo più il sindaco si fregia del titolo di pro sindaco. Il tema è quello dei cartelli razzisti contro i quali un paio di anni fa quei cittadini, costituiti in Comitato, avevano raccolto delle firme (grazie ancora a tutti!).
Ecco: le firme raccolte non sono servite a nulla, ma quei cittadini non hanno mollato il colpo e di fronte della rigidità dell’amministrazione nel perseverare nel proprio comportamento e dell’indifferenza della Prefettura a suo tempo sollecitata sul tema, si sono visti costretti all’azione giudiziaria al fine di riaffermare i principi di solidarietà, buona amministrazione e non discriminazione. Un’azione dovuta ancor più perché offende una località, Varallo Sesia, città medaglia d’oro della resistenza, conferendole una connotazione aggressiva e inospitale.
L’udienza è stata fissata a Torino: il prossimo 12 dicembre.
Invito tutti gli amici, valsesiani e non, a 
condividere affinché la notizia giri nella rete e raggiunga il pesce grosso.


Comitato per la rimozione dei cartelli razzisti di Varallo




venerdì 19 luglio 2013

Copertina di Dodicidio



Un  romanzo per dodici autori dal FIAE, nato da una mia idea, portato avanti con determinazione da Amneris Di Cesare, edito da Edizioni La Gru del bravo Massimiliano Mistri.
I diritti d'autore vanno in beneficenza a IOV art.




mercoledì 29 maggio 2013

La grande bellezza - film di Paolo Sorrentino



Sorrentino racconta, avvalendosi della recitazione sublime di Toni Servillo, l'Italia allo sfascio proprio nelle sue classi dirigenti. Intellettuali, o presunti tali, editori nani e non solo come metafora, nobili in affitto, cardinali, ballano tutte le notti, bevono drink, tirano coca, agganciati in un trenino senza destinazione. Non resta che la nostalgia della gioventu', quello che credevamo di poter diventare, l'amore che credevamo di poter dare, la bellezza che é definitivamente sfumata, se non in rari squarci inafferrabili. Sorrentino sdogana la Ferilli nazionale, magicamente trasformata in donna vera, utilizza finalmente Verdone per le sue qualità drammatiche e, sulle quinte naturali di una Roma sempre bella sempre in rovina, disvela la messa in scena di disincatati uomini e donne di mezza età senza futuro e senza speranza. Che non si faccia l'errore di pensare che la cosa riguardi solo l'alta borghesia romana, questo film racconta il nostro paese forsennatamente proiettato allo sfascio.